lunedì 31 maggio 2010

AI CONFINI DELL'ANIMA

AI CONFINI DELL’ANIMA – Emanuele Severino / Luigi MariaVerzè
Corriere della Sera 27/05/20100
Estratto della rivista “Kos” del San Raffaele di Milano
Si tratta di un estratto di due articoli apparsi sulla rivista ciascuno a firma di uno degli autori di cui
sopra.
Severino cita Aristotele per cui l’anima sarebbe la totalità delle cose: non nel senso fisico ma nel senso della loro rappresentazione, manifestazione, apparenza. Manifestazione della totalità che però non avviene in modo simultaneo ma come processo. sviluppo, generazione. Quindi l’anima non è un ente particolare appartenente alla totalità ma può apparire, manifestarsi attraverso gli enti
che progressivamente vengono generati o si evolvono. Infine sostiene che poiché l’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, le scienze moderne, ma anche la religione e la filosofia, nelle loro indagini sull’anima (coscienza, mente, spirito) la prendono in considerazione come parte della totalità, come uno degli enti particolari che appaiono, come se gli enti esistessero “in se stessi,
indipendentemente dal loro apparire. Secondo Severino è su questo fondamento che prendono corpo teorie come quella evoluzionista e scienze come la psichiatria che vede nella cura un modo per interferire con la psiche. Da questo estratto non si capisce cosa Severino stesso pensi dell’anima.
Verzé prende in considerazione l’anima solo in riferimento all’uomo e sostiene che anima e corpo non sono cose separate. Crede in un’anima immortale, immutabile ed eterna: senza l’anima non ci sarebbe l’uomo ma l’uomo, ugualmente, non ci sarebbe con la sola anima senza il corpo e l’intelligenza. Corpo ed intelligenza possono differenziarsi in ciascun individuo ma l’anima rimane immutabile ed eterna. Inoltre sostiene che l’anima è spirito somigliante a Dio, quindi, ontologicamente non perfettibile ma soggetta, in interazione con il corpo, a perfezionarsi nel merito
in modo sia pure non quantizzabile con le misure umane.
In merito alle considerazioni di E. Severino
Forse non vale la pena chiedersi se ci sia un’anima ma certo ha un senso chiedersi se ci sia una essenza indistruttibile in ogni cosa. Se questa essenza la chiamiamo anima allora possiamo prendere in considerazione la definizione di Aristotele come illustrata da Severino: è la totalità delle cose, non nel senso fisico, ma nel senso del loro progressivo apparire, manifestarsi, presentarsi. Dovrebbe essere chiaro, però, che è dal rapporto con quest’anima, o essenza di tutte le cose, che ogni cosa sviluppa una sua coscienza, una sua intelligenza un suo modo di manifestarsi.
A questo punto si affacciano alcuni interrogativi:
- se si tratta di un’anima indistruttibile siamo in presenza di qualcosa di eterno e ciò che è eterno non ha un momento per manifestarsi allora, in relazione al processo, siamo in presenza di una manifestazione continua e. in relazione alle cose, non abbiamo un solo inizio ma infiniti inizi;
- continuità ed infiniti inizi hanno, però, una relazione con il tempo, rivelano un punto di contatto tra l’essere e l’esistere. Si direbbe che il tempo è strettamente connesso al formarsi delle strutture. Ogni struttura ha il suo tempo anche quando le accade di trovarsi all’interno di altre strutture. Il tempo non esiste per tutti gli enti allo stesso modo, ha un carattere locale ed effimero, quindi non esiste a livello fondamentale. L’anima al contrario, esiste indipendentemente dalformarsi delle strutture, non è effimera, non è locale, non subisce alterazioni o cambiamenti quindi esiste a livello fondamentale;
- se questa anima è in grado di generare le cose consentendo loro di evolvere interagendo tra loro, allora deve contenere le informazioni necessarie perché gli enti possano fisicamente formarsi e gestire i loro rapporti;
- se le cose sono così varie e diverse allora godono di un certo grado di libertà;
- se inoltre alcune strutture evolvono e altre regrediscono vuol dire che alcune interpretano il loro rapporto con l’anima meglio di altre e sanno come meglio interagire con le altre presenze.
Dobbiamo dunque pensare che le informazioni di cui questa essenza è portatrice, necessarie a formare strutture e a determinare i loro rapporti, non siano regole rigide ma consentano una certa libertà di scelta e comportino una qualche responsabilità degli enti in merito alla loro esistenza. Se è così ogni ente ha un suo modo di organizzare le informazioni e di entrare in relazione con altri. Può
anche rinunciare alla propria individualità per assumerne una in comune: sommando le sue informazioni a quelle degli altri a cui si è legato forma un nuovo organismo che le riorganizza per una esistenza diversa. Questo processo giustificherebbe il formarsi di coscienze (ed intelligenze) sempre più evolute.
C’è da stabilire come possa manifestarsi l’essenza eterna ed indistruttibile che da origine alle cose laddove le cose ancora non sono; quale sia cioè l’ambiente o il supporto della manifestazione. Immaginiamo che si tratti di un vuoto che non è uno spazio ma un vuoto senza spazio dove è l’energia stessa della manifestazione ad aprire uno spazio e lo spazio, come si sa, è un mare di energia virtuale in grado di evolvere in strutture fisiche. Ma, se il tempo ha un carattere locale ed effimero e quindi può essere considerato illusorio, le cose non lo sono. Non sono effimere perché partecipano ad un processo che non è confinato nel tempo e non sono locali perché strettamente collegate tra loro da una infinità di relazioni, indipendentemente dalla loro collocazione spaziale. Manifestandosi comunicano che ne siano coscienti oppure no, il rapporto con l’anima che si portano dentro, ragione e fondamento della loro esistenza. Certo è normale pensare che i processi avvengano nel tempo e per quanto possa sembrare assurdo parlare di processi per eventi, che non sarebbero confinati nel tempo, occorre considerare che la scienza ci ha. ormai, abituati a confrontarci con concetti apparentemente assurdi, obbligandoci a rivedere in modo radicale il nostro modo di pensare.
Il problema della non località e della atemporalità, a proposito di entità materiali, è emerso e si è imposto con la fisica quantistica. Einstein, con l’esperimento del pensiero, definito paradosso E.P.R., (Einstein, Podolsky, Rosen) sosteneva che il principio di località e la meccanica quantistica non andavano d’accordo: se era corretto il primo non lo era la seconda, se era corretta la seconda allora non lo era il primo. Einstein aveva ragione ma John Bell, 30 anni più tardi, consentendo di sottoporre il teorema EPR a verifica sperimentale, dimostrò la correttezza della meccanica quantistica e, diversamente da quanto pensava Einstein, verificò che il principio di località (e quindi di temporalità) non reggeva la prova sperimentale.
Dovremmo forse abituarci a pensare che passato, presente e futuro, come pure qui e là, siano legati insieme in un’unica struttura, ogni evento sia il risultato di un intreccio cui il tempo attribuisce l’aspetto illusorio di una collocazione spazio-temporale ma che in realtà sia strettamente intrecciato con il suo passato, il suo futuro e con qualunque altro evento, ovunque verificatosi. Ovviamente se ogni cosa conserva un suo significato ed ogni ente un suo specifico ruolo siamo di fronte ad un processo non confinato entro limiti temporali ma neppure immerso in un brodo spazio-temporale indistinto di eventi e presenze senza capo ne coda.
La pretesa che gli enti esistano in se stessi, indipendentemente dal loro manifestarsi non è condivisibile ma può servire alla scienza per isolare i fenomeni, stu..diarli e conoscerli nel particolare. Per ora, infatti, una teoria del tutto rappresenta un sogno irraggiungibile per la scienza, cosi come per la filosofia. Ma se le cose hanno un’anima e quest’anima è l’essenza indistruttibile di tutte le cose, manifestazione prima e origine di ogni altra manifestazione, allora è su questa essenza e sui rapporti che ogni ente intrattiene con essa, che si regge ogni possibile universo.
In merito alle considerazioni di L.M. Verzé
Si tratta di un punto di vista antropocentrico. Ma se consideriamo l’uomo alla stregua di un qualsiasi altro ente questa impostazione non si differenzia sostanzialmente da quella illustrata più sopra, salvo per un particolare: la perfettibilità dell’anima: perfettibilità non ontologica (visto che è èterna ed immutabile, spirito somigliante a Dio) ma dal punto di vista del merito. Anche se questo merito non può essere definito in termini di misure umane resta il fatto che corpo ed intelligenza pur non influenzando l’essere dell’anima possono, secondo Verzé, influenzarne il merito. Sarebbe più semplice sostenere che l’anima è la sorgente delle nostre informazioni fondamentali, ci consente di distinguere il bene dal male, è, infine, portatrice di un principio etico con il quale corpo e mente
possono interagire positivamente o negativamente determinando, a seconda dei casi, una buona ocattiva coscienza.
Ivo Fava 31/5/2010

venerdì 14 maggio 2010

LIBERTA' E PRINCIPIO ETICO

LIBERTA’ E PRINCIPIO ETICO
Come rispondere a Vito Mancuso

Dice il teologo Vito Mancuso: «l’obiettivo divino, ancor più della vita fisica, è la vita libera, e in questa prospettiva Dio realizza veramente il suo piano, perché il mondo che si dispiega ogni giorno sotto i nostri occhi è un immenso esperimento che raggiunge il suo obbiettivo, cioè la terribile ed insieme meravigliosa alchimia della libertà».
Se c’è un Dio questo deve manifestarsi perché altrimenti non avrebbe alcun senso e sarebbe chiuso in un cerchio di autoreferenza. Dobbiamo anche pensare che la Sua manifestazione avvenga nell’esistente non nell’essente perché Dio è già manifesto in sé. Ma se partiamo dal presupposto che l’uomo è libero dobbiamo immaginare che la manifestazione divina avvenga nella forma di proposta: ci sia cioè in essa una modalità che esige una risposta, modulata in vario modo, ma fra due estremi: accettazione o rifiuto. Una risposta che implica una responsabilità da cui dipende il nostro destino e la nostra stessa sopravvivenza. Però, se esiste un disegno divino dovremmo parlare di processo, non di esperimento, e dovrebbe riguardare il contenuto della manifestazione, non la sua modalità: non può, quindi, consistere nella libertà che consegue alla modalità, ma bensì in un valore, un principio etico in grado di orientare i nostri comportamenti. Dunque, noi siamo liberi di esercitare le nostre scelte ma questa libertà viene esercitata in un mondo di relazioni dove ognuno deve rapportarsi con l’altro sia che ne venga a contatto, sia che ciò non accada, perché ogni azione provoca una reazione diretta sulle cose con cui viene a contatto e indiretta sulle cose lontane, dalle conseguenze diffuse, a volte percepibili e a volte no, ma comunque reali. In questo contesto uniformarsi o meno ad un principio etico ha un impatto decisivo.
Comunque si ragioni attorno a questo problema, la tendenza è quella di riferirsi sempre all’uomo come se fosse solo lui l’oggetto dell’attenzione divina; in realtà noi siamo solo una presenza in un universo molteplice, caratterizzato da una infinità di presenze, ciascuna delle quali si forma esiste e si evolve nella misura in cui si conforma al fine ultimo che, dunque, non è una particolare struttura, nel nostro caso rappresentata dall’uomo, ma “un Principio”. Tanto più c’è coerenza con esso, tanto più si manifesta la capacità di evolversi e perfezionarsi; tanto più ci si allontana, tanto più si manifesta l’opposta tendenza a degenerare e regredire.
Sembra che in origine il nostro universo fosse costituito da un brodo di quark in condizioni di assoluta libertà, incapaci di entrare in relazione tra loro. Questa loro condizione originaria produceva come risultato il caos. Quando i quark si accasarono, sia pure in vario modo, nelle prime strutture: adroni, protoni, neutroni, atomi, cominciò a delinearsi uno sviluppo sempre più ordinato che non si è arrestato con la formazione di stelle e galassie ma è proseguito fino a generare, da materiale organico, quella che noi, oggi, chiamiamo “vita”. Da qui, sono emersi elevati stati di coscienza in grado di porre interrogativi sul perché delle cose, sul significato di ogni esistenza e dell’intero universo. Un numero infinito di particelle elementari hanno dovuto rapportarsi tra loro, scoprendo e realizzando le giuste relazioni che sono tuttora in evoluzione e che continuano ad essere elaborate e perfezionate. Quando, per qualche ragione, queste relazioni non sono appropriate le strutture si disgregano e regrediscono. Ci sono elementi i cui atomi possono esistere con un numero variabile di neutroni (isotopi) e pur differenziandosi per qualche aspetto secondario conservano inalterate le loro caratteristiche fondamentali. L’uranio con peso atomico 235 decade più velocemente dell’uranio con peso atomico 238 ma rimane uranio, tuttavia se qualche neutrone, oltre quelli consentiti, pensando di essere tranquillamente accolto, cercasse di accasarsi dentro quell’atomo che già ne ospita più di un centinaio, scatenerebbe il finimondo: l’atomo potrebbe trasformarsi, spezzarsi, dividersi in elementi diversi, spargendo tutto intorno una miriade di frammenti radioattivi.
Ci sono in natura principi che non pongono obblighi, non sono imposti, ma a cui ci si deve uniformare per formare strutture stabili. L’alternativa esiste ma sarebbe il caos.
Se la natura si esprime in questo modo pensate che l’uomo possa differenziarsi? Non lo può fare, sia che faccia riferimento alla sua singola persona o alle strutture sociali che via via sperimenta lungo il suo percorso nella storia.
Nelle relazioni personali l’uomo può proporsi o imporsi e anche le strutture sociali possono essere imposte o condivise. Le persone che si propongono per relazioni non conflittuali e le strutture sociali condivise possono comportare una volontaria limitazione della libertà individuale ma portano a rapporti pacifici e a uno sviluppo ordinato. Le persone che manifestano atteggiamenti e relazioni conflittuali e le società civili fondate su principi autoritari, quelle commerciali o industriali che obbediscono esclusivamente alle leggi del profitto, producono tensioni che, prima o poi, conducono a reazioni violente.
Qualcuno potrebbe sostenere che il principio etico non centra e che cercare relazioni pacifiche, creare strutture condivise risponde tutto sommato ad un principio di convenienza; tuttavia, se fosse solo questo, si tratterebbe di un approccio egoistico facilmente soggetto ad influssi e pulsioni di autoaffermazione, primo passo verso la sopraffazione dei diritti altrui.
Che cos’è allora la libertà? È la condizione iniziale necessaria per poter esercitare la facoltà di conformarsi o meno al principio etico. Se per ragioni politiche, sociali, economiche, questa libertà fosse conculcata, l’uomo sentirebbe il bisogno di rivendicarla come un diritto naturale perché, infatti, di questo si tratta. Conformarsi, non a qualsiasi legge o comportamento, ma al principio etico su cui regge l’intero universo, non è un obbligo ma una scelta che ciascuno di noi ha il diritto di esercitare in piena libertà. Ordine e caos sono alla nostra portata e sono affidati anche alla nostra responsabilità.
Certo non siamo in presenza di comportamenti eticamente responsabili quando, per ragioni di profitto, si scava nelle profondità oceaniche, alla ricerca di petrolio, senza porsi il problema di come riparare il possibile guasto di una valvola capace di provocare un disastro ambientale di incalcolabili dimensioni e dagli esiti imprevedibili, in una delle aree più dinamiche per le diversità biologiche ivi esistenti; quando, per assicurarsi una rendita politica e profitti personali, si promuovono eccessi di spesa pubblica improduttiva, ponendo a carico delle generazioni future debiti difficilmente sanabili senza conflitti sociali e lotte anche cruente; quando, per facili guadagni, si eccede in speculazioni finanziarie capaci di mettere in ginocchio economicamente interi continenti, invece di investire la ricchezza in attività produttive, nella ricerca, nella scuola e creare cosi occasioni di lavoro, di crescita culturale e di futuro benessere; quando argomenti di natura religiosa vengono strumentalizzati per negare diritti naturali e civili a milioni di persone.
Forse il nostro egoismo, la nostra incapacità di assumere comportamenti eticamente responsabili, porterà alla scomparsa della nostra specie e, se dobbiamo continuare ad agire come più sopra descritto, è meglio che ciò avvenga al più presto per consentire alla terra di sopravvivere e alle altre specie di evolversi e sostituirci in un sistema di relazioni universali più armonico.
In chiusura vorrei riprendere il discorso sulla libertà fatto da Mancuso e riportato all’inizio di questo articolo. Non credo potrà mai esserci una libertà individuale senza che ci siano limiti dovuti ad un sistema di relazioni universale ma penso che, se veramente l’universo realizzasse quanto la manifestazione divina propone, allora il sistema di relazioni sarebbe talmente perfetto che il molteplice finirebbe per identificarsi con l’Uno. Non ci sarebbe più bisogno di relazioni perché l’universo diventato Uno si identificherebbe con la Manifestazione medesima. È questa la libertà di cui parla Mancuso?

giovedì 12 novembre 2009

GESU' CROCEFISSO

GESÙ CROCEFISSO

Dice Erasmo da Rotterdam che Gesù ha insegnato una cosa sola: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
A Dio appartiene l’amore e a Cesare la legge. “Rendete a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”. Con queste parole Gesù consegna la legge agli uomini riservando a Dio un messaggio culturale ed etico. A questo messaggio il mondo non può rinunciare e l’occidente non può sradicarlo dalle sue radici senza smarrirsi.
Esistono fondamentalismi religiosi e fondamentalismi laici. Gesù crocefisso non ha nulla a che fare con loro, anzi è una loro vittima così come lo è stato il Gesù uomo, allora ad opera di un tribunale religioso, tra l’indifferenza del potere imperiale romano, oggi ad opera di un tribunale laico, tra l’indifferenza di una cultura materialista globalizzata di mercato, dominata dalle multinazionali.
Senza questo messaggio cosa resta all’Europa? Resta un relativismo culturale per cui tutte le fedi, credenza, ideologie, tendenze comportamentali vanno bene purché destinate ad un uomo che consuma. In questo vuoto culturale ed etico si consuma anche il sogno di un’Europa unita e pacificata attorno a dei valori comuni. Il futuro potrebbe assegnarle il ruolo di terra di conquista per minoranze fanatiche ma determinate che nel relativismo di un laicismo falsamente tollerante troveranno il loro terreno di coltura. Questa Europa deve cambiare per avere un futuro.
Ivo Fava 12/11/2009

mercoledì 28 ottobre 2009

COME CONCILIARE LA SPESA CON IL RIGORE

COME CONCILIARE LA SPESA CON IL RIGORE

Chi sostiene la politica della spesa chi quella del rigore. Per alcuni le due posizioni sono inconciliabili e di fatto creano tensioni nel governo e nel paese. In realtà è possibile conciliare la politica del rigore con quella della spesa a patto che si abbia il coraggio e la volontà necessaria per affrontare i nodi strutturali che ostacolano o rallentano la crescita e rendono impossibile qualsiasi politica di sviluppo.
Ridurre la spesa è indispensabile se si vuole alleviare il peso fiscale su aziende e lavoratori, come pure per alleggerire il peso dell’enorme massa del debito pubblico ma la spesa pubblica ha effetti positivi sulle infrastrutture, sui consumi, crea opportunità di lavoro, promuove lo sviluppo e in sostanza è un importante fattore di crescita. Con la crescita il gettito fiscale potrebbe aumentare anche diminuendo le tasse e quindi si renderebbero disponibili maggiori entrate. Tuttavia c’è una parte della spesa che comporta duplicazione di compiti, rende farraginoso il funzionamento dello stato, complica la vita dei cittadini e delle imprese e si risolve, in sostanza, in un inutile spreco di risorse; allora la spesa da aggredire è quella improduttiva.
Sono necessarie riforme che vadano in questa direzione e una diversa collocazione dei mezzi economici disponibili.
Tra le riforme citiamo quella del pubblico impiego che non significa solo una più razionale utilizzazione del personale e l’informatizzazione dei servizi ma anche la definitiva eliminazione degli enti inutili; la riorganizzazione degli enti pubblici territoriali, con l’eliminazione di prefetture e provincie divenute ormai obsolete; la parificazione dell’età pensionabile tra uomini e donne; il federalismo fiscale con precisi limiti di bilancio tali da coinvolgere la responsabilità personale di chi amministra la cosa pubblica.
Riforme di questa natura semplificherebbero e renderebbero più efficiente le strutture burocratiche dello stato, più responsabili gli amministratori pubblici e più trasparenti le amministrazioni medesime, consentirebbero il recupero di risorse da destinare progressivamente alla riduzione del carico fiscale di lavoratori ed imprese, al contenimento del debito, alla redistribuzione della spesa a favore degli ammortizzatori sociali, della riqualificazione professionale, dell’istruzione, della ricerca, della bonifica e messa in sicurezza del territorio. Si potrebbe in questo modo evitare anche la ventilata svendita del patrimonio dello stato (imprese, immobili, opere d’arte) che, con la corruzione diffusa, di cui abbiamo ogni giorno conferma, finirebbe per arricchire ulteriormente alcuni, impoverendo inutilmente il paese.
Non abbiamo detto niente che già non si sappia. La gente ne parla a volte con rabbia a volte con sconforto. Per ora questa presa di coscienza produce mancanza di fiducia, perdita di credibilità nella rappresentanza politica ma la classe dirigente ascolterà queste voci? Se lo farà correrà dei rischi ma non sarà sola; se non lo farà i rischi saranno di gran lunga maggiori e nessuno correrà in suo aiuto.
Fava Ivo 28/10/2009

venerdì 9 ottobre 2009

MAGISTRATURA E POLITICA

MAGISTRATURA E POLITICA
Cominciamo dalla considerazione che le istituzioni non sono sacre. Si poteva forse pensare che lo fossero quando le si riteneva di origine divina ma ora si sa che sono creazioni umane e quindi criticabili come tutto ciò che dipende dal giudizio degli uomini.
Proseguiamo con la constatazione che il sistema di potere cui ha fatto riferimento il governo della prima repubblica non è finito a seguito di un voto popolare ma per mezzo di una azione della magistratura diretta essenzialmente verso i partiti della maggioranza parlamentare. Ora, anche senza entrare nel merito della legittimità, imparzialità e correttezza di questa azione, è evidente che si è trattato di un conflitto tra i poteri dello stato, tra l’altro preceduto da un fatto clamoroso, non ancora del tutto chiarito nei suoi più inquietanti aspetti: il sequestro e l’assassinio ad opera delle B.R., dopo un processo clandestino, di Aldo Moro segretario del maggior partito di governo e presidente del consiglio incaricato. Partiti di opposizione e organi di informazione hanno svolto in questa fase il ruolo di comparse schierandosi a favore o contro secondo la loro convenienza e la direzione degli eventi. Oggi i giudizi, tra loro contrastanti, della corte costituzionale sul lodo Alfano non fanno che confermare questa tesi: ancora una volta il sistema di potere che si regge sul voto popolare è sotto attacco da parte della magistratura. Ancora una volta le opposizioni stanno a guardare o approvano secondo la loro convenienza.
Si pone la questione: l’azione della magistratura trova la sua giustificazione nel ruolo istituzionale garantito dalla costituzione o può esserci il sospetto che non sia del tutto imparziale o peggio che persegua dei fini politici?
Sappiamo che esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e che i giudici possono esercitarla nei confronti di chiunque, ma sappiamo anche che i giudici possono essere giudicati solo da altri giudici attraverso il loro organo di governo: il C.S.M. Questo attribuisce loro forza, potere ma anche responsabilità: se esistesse un fondato sospetto di parzialità o di ingerenza nella attività legislativa e di governo tutta la politica italiana risulterebbe irrimediabilmente inquinata e distorta.
L’indipendenza della magistratura non è in discussione; proprio per questo bisogna sottoporre ad un attento esame la sua organizzazione interna e cercare di capire se le procedure che portano alla formazione del giudizio, specie quando governo e parlamento ne subiscono le conseguenze, sono tali da garantire la formazione di un convincimento totalmente imparziale, libero e indipendente.
In primis: il magistrato deve essere ed apparire indipendente perciò non dovrebbe aderire a logge, associazioni, partiti politici o essere inquadrato in correnti che sostengono e sopportano le ambizioni di chi vi aderisce a svantaggio di chi ne è escluso. Questa esigenza di assoluta imparzialità e indipendenza dovrebbe essere una irrinunciabile questione di principio, visto l’enorme potere che è nelle mani del magistrato e l’alto grado di protezione che la legge gli garantisce nell’esercizio delle sue funzioni. Questo, purtroppo, non avviene: il sistema elettorale per la elezione del C.S.M., con il riparto proporzionale tra liste concorrenti e lo sbarramento del 9%, obbliga i magistrati a schierarsi in correnti e queste ultime lo fanno su posizioni dichiaratamente politiche. Tutto questo minaccia l’indipendenza del magistrato e getta un’ombra sulle sue iniziative.
Governo, parlamento e magistratura sono poteri dello stato. Per evitare conflitti di potere, dovrebbero avere relazioni interdipendenti ma nettamente separate. Ciò non avviene per governo e parlamento: il parlamentare può essere anche ministro e viceversa; tuttavia l’uno o l’altro, a meno che non sia un giudice, non potrà mai diventare magistrato (se non in qualche particolare caso e solo per ruoli di garanzia) Al contrario un magistrato, in qualsiasi momento, posto che ne abbia l’opportunità e la convenienza, può diventare parlamentare o ministro e viaggiare tra le istituzioni come un astronauta tra le galassie. Così diventa possibile la formazione di un partito dei giudici o, in alternativa, l’infiltrazione dei giudici nei partiti. In questo modo viene a configurarsi un conflitto di interessi di vasta portata, si rende problematico qualunque serio discorso sulla giustizia, si hanno pesanti riflessi e gravi alterazioni nei normali rapporti tra istituzioni e sulla natura delle relazioni politiche.
Tutti i cittadini, godono dell’elettorato attivo e passivo, possono eleggere ed essere eletti negli organismi politici rappresentativi. Possono farlo anche i magistrati ma per il mestiere che hanno scelto e per non essere accusati di giovarsi di una notorietà e di meriti acquisiti e cercati di proposito, questo passaggio dovrebbe avvenire dopo un certo periodo di vacatio con la toga appesa al chiodo e senza possibilità di ritorno sui propri passi: infatti una volta effettuata una scelta politica non è più garantita l’indipendenza di giudizio. Anche questa pratica di viaggiare tra i poteri getta un’ombra sulla magistratura sia inquirente e giudicante sia di garanzia: purtroppo i giudici della corte costituzionale sono scelti in base ad appartenenze politiche. Possono fare eccezione quelli di nomina presidenziale ma anche il presidente della repubblica viene espresso da schieramenti politici: dovrebbe svolgere un ruolo di garanzia e questo presidente lo ha fatto ma non è detto che sia sempre così.
Resta da spiegare come mai le correnti di sinistra abbiano la maggioranza in tutti gli organismi rappresentativi della magistratura e come si sia formato, dopo mani pulite, un partito dei giudici, che in un primo momento ha trovato ospitalità in casa d’altri ma che ormai ha acquisito una esistenza autonoma chiaramente rivoluzionaria nel linguaggio, nei comportamenti e con tendenze egemoni irrispettose della volontà popolare. Il dubbio che sia in atto una lotta di potere tra i poteri teso a sovvertire l’ordine politico legittimato dal consenso popolare rimane e pesa come un macigno sulla politica e sul nostro futuro.
Ivo fava - 09/10/2009

giovedì 3 settembre 2009

COSCIENZA ED ETICA

Ho letto, tempo fa, un articolo di Edoardo Boncinelli dal titolo “Le quattro vie che portano alla coscienza” (Corriere della Sera del 26/6/2009). Mi sono fatto degli appunti e mi sono riproposto di esprimere a mia volta una opinione sull’argomento. Avrei voluto leggere, prima, il libro di Derek Denton “Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza”. Infatti è da questo libro che Boncinelli ha tratto ispirazione. Non ho letto il libro di Denton ma intendo, comunque, commentare l’articolo in questione partendo proprio dalla affermazione finale:«Può darsi che tutta la magia del fenomeno coscienza si risolva nel portare alla ribalta del mio io certi contenuti della percezione che siano pronti per l’azione o addirittura già azione: cose che stanno a mezza via fra la constatazione e la progettazione, come dire il progetto.»
È chiaro che la coscienza di cui parla Boncinelli è la sua coscienza, cioè una coscienza individuale umana. A questa conclusione giunge partendo da una affermazione di Denton «La mente è ciò che il cervello fa» ma poi ne restringe il significato osservando che la mente è solo una parte del cervello: esclude quindi tutto ciò che presiede al metabolismo delle cellule nervose e mette in evidenza la parte che riguarda la coscienza. In questo modo tende a rappresentare la coscienza come una acquisizione che la vita ha realizzato ad un certo punto del suo sviluppo, una sovrastruttura formatasi nel cervello, in una certa misura presente anche negli animali superiori, ma che ha raggiunto il massimo livello negli esseri umani. Per suo mezzo noi entreremmo in relazione con lo spazio, con il tempo e con le cose intorno a noi, ci permetterebbe di «sapere dove siamo in questo momento e di sapere che lo sappiamo». In base alle sue conclusioni individua quattro percorsi seguiti dall’evoluzione per consentire alla coscienza umana di emergere ed affermarsi:
- i bisogni biologici necessari che precedono l’emergere della coscienza primaria (Denton),
- la percezione del mondo esterno e la sua rappresentazione (Gerald Edelman),
- sensazioni e risonanze sulle quali si può costruiren il resto (Antonio Damasio),
- la propriocezione, ossia la percezione che ognuno di noi ha dello stato di tensione dei muscoli del proprio corpo (Boncinelli medesimo).
Ciò detto, una coscienza primaria potrebbe, esistere già in organismi biologici primitivi poiché tutti sentono gli stimoli della fame e della sete e la necessità di soddisfare questi bisogni; un certo grado di percezione e rappresentazione del mondo esterno dovrebbe contraddistinguere tutti gli esseri viventi se è vero che tutte le creature reagiscono a cambiamenti climatici e ambientali. Lo stesso vale per le sensazioni e risonanze o per lo stato di tensione dei muscoli: una mosca percepisce benissimo una sensazione di pericolo e un serpente sa interpretare altrettanto bene lo stato di tensione dei suoi muscoli al momento di afferrare la preda.
Una delle caratteristiche superiori della coscienza è quella di acquisire informazioni, trasformarle in esperienza e tradurre le esperienze in azioni: azioni intese non solo come adeguamenti comportamentali ma anche come adeguamenti strutturali.
A questo punto possiamo introdurre la domanda: un vegetale è in grado di acquisire informazioni, trasformarle in esperienze ed agire in conseguenza? Tutti sappiamo che un vegetale sa allungare le sue radici verso il terreno più fertile o irrigato e i suoi rami verso la fonte di luce più vicina; se aggredito da nemici sa approntare delle difese come spine o foglie urticanti o velenose. Questi comportamenti possono indicare la presenza di una forma di coscienza?
Possiamo osare ancora di più e chiederci: solo la vita biologica può realizzare forme di coscienza?
Scrive David J. Chalmers (Arizona Univesity):
«Forse le informazioni, o almeno alcune informazioni, hanno due aspetti fondamentali, uno di carattere fisico ed uno appartenente al mondo dell’esperienza…. Può persino accadere che teoria fisica e teoria della coscienza possano essere, alla fine, unificate in un’unica grande teoria dell’informazione. Si pone potenzialmente la domanda del posizionamento dell’informazione; persino un termostato, ad esempio, incorpora qualche informazione, ma si può dire che sia conscio? Ci sono almeno due possibili risposte; la prima: possiamo elaborare delle leggi fondamentali in modo che solo alcune informazioni si traducano in esperienze…., la seconda: possiamo forzare la situazione e avanzare l’ipotesi che tutte le informazioni producano esperienze….Se è così persino un termostato può provare esperienze.Questo può sembrare strano, in un primo momento, ma se l’esperienza è davvero fondamentale dobbiamo aspettarci che sia largamente diffusa».(D.J.Chalmers,” The puzzle of conscious experience”, Scientic American p.100-agosto 2002).
Questo potrebbe significare che la coscienza è una forza cosmica deputata ad interpretare l’universo in tutte la sue manifestazioni, in tutte le sue molteplici e mutevoli relazioni. Non sarebbe quindi esclusiva di una singola specie o della vita biologica come noi la intendiamo ma sarebbe presente in ogni struttura, semplice o complessa, materiale o immateriale, organica o inorganica e persino nelle loro singole parti. Del resto l’universo è un insieme di relazioni tra soggetti ciascuno dei quali e depositario di qualche informazione. Da come si evolvono queste relazioni nascono e si formano strutture che sommano insieme le informazioni di cui dispongono. Niente di più naturale pensare che sia la somma di queste informazioni e la loro qualità a determinare il livello di coscienza di ogni singolo soggetto.
A questo punto noi uomini, pur ridimensionati nella nostra presunzione di essere unici e irraggiungibili, potremmo ancora peccare di eccessivo orgoglio. Infatti non è detto che un alto livello di coscienza porti automaticamente ad una corretta interpretazione del proprio ruolo nell’universo. A volte, al contrario, può determinare la convinzione di poter appagare tutte le proprie ambizioni, i propri sogni e desideri anche a scapito di ogni altra presenza. Questo atteggiamento avrebbe effetti distruttivi.
Veniamo al concetto di progetto. Se l’uomo pensasse, data la sua presunta superiorità, rispetto ad ogni altra creatura, di essere lui il “progetto” e si comportasse di conseguenza, non andrebbe molto lontano. In realtà non esiste un progetto ma solo un principio in base al quale è possibile valutare la correttezza delle relazioni che ogni presenza intrattiene con le altre. La coscienza dovrebbe consentire l’utilizzo delle informazioni al fine di interpretare correttamente queste relazioni, permettendo la formazione di strutture destinate a durare e ad evolversi. Ma non è detto che lo faccia. Dunque se di un principio si tratta deve trattarsi di un principio etico ed è su questo principio che potrebbe reggersi l’intero universo.

giovedì 27 agosto 2009

La filosofia secondo Emanuele Severino

L'articolo di E. Severino "La chiave per capire la crisi" apparso sul Corriere della sera del 21 luglio 2009, è un invito alla riflessione. Il titolo è riduttivo perché l'autore vede:- nella filosofia l'interprete della manifestazione originaria del mondo e la pone a fondamento della potenza e dell'agire dell'uomo;- nella tecnica , come essenza vincente e nascosta della filosofia, la ragione del declino del capitalismo, della democrazia come pure delle religioni e delle passate ideologie;- nella unità unificante della tradizione filosofica la sola possibilità di spiegare la crisi economica.Afferma: "Ogni forma di pensiero e di azione hanno il loro fondamento nella manifestazione originaria del mondo" ed ancora: "…la filosofia è stata fin dall'inizio l'interprete della originaria manifestazione del mondo…. ha reso possibile e determinato la potenza, cioè l'agire dell'uomo: agire politico, morale, economico, artistico, religioso e dunque anche l'agire tecnico scientifico". Tuttavia, per interpretare la manifestazione originaria del mondo bisogna prima supporne l'esistenza e certamente la filosofia, sin dai primi istanti, ha cercato delle risposte partendo anche da questa premessa. In realtà pensiero ed azione potrebbero non essere l'espressione e non avere fondamento in una manifestazione originaria del mondo ma essere esse stesse manifestazioni del mondo. Il mondo cioè non si sarebbe manifestato unitariamente, comprendendo ogni tempo, ma temporalmente e episodicamente. La filosofia non aveva ancora fatto la sua comparsa ma possiamo essere certi che in ogni tempo ci sono state presenze capaci di dare una loro interpretazione della realtà cercando risposte in grado di consentire il loro adeguamento ad un ambiente che si andava, di volta in volta, rivelando. Forme e strutture semplici si sono così evolute in forme e strutture sempre più complesse preparando e consentendo la comparsa dell'uomo, della mente e dell'intelligenza umana. È così che il mondo continua a manifestarsi.Ogni manifestazione determina nuove relazioni e ogni relazione richiede una risposta globale, di sintesi. In riferimento all'uomo mi sembra, perciò, riduttivo considerarlo soltanto sotto l'aspetto delle sue capacità cognitive e razionali. È vero, la filosofia è alla base del pensiero e quindi anche delle discipline scientifiche, dello sviluppo della tecnica, dell'arte e così via. Determina anche lo sviluppo delle civiltà ma non sa impedirne il logoramento, il crollo, e qualche volta la definitiva scomparsa. Il comportamento umano ha molte componenti irrazionali e molto spesso sono queste a prevalere. Sensazioni e bisogni primari provocano reazioni istintive; le conoscenze tecniche sono sovente utilizzate a fini di gratificazioni personali e di parte che nulla hanno a che fare con la potenza e l'agire dell'uomo in quanto tale. La filosofia è forse alla base della potenza dell'uomo ma non è cosi scontato che sia la sola a determinarne l'azione, a meno che si attribuiscano alla filosofia anche le componenti irrazionali istintuali ed egoistiche che hanno un impatto devastante sulle cose del mondo.L'interpretazione della manifestazione originaria del mondo è solo uno dei campi di ricerca per mezzo dei quali la filosofia cerca una risposta sull'origine dell'universo. Lo fa in un contesto unitario prendendo in considerazione la totalità dei fenomeni, così come fanno le religioni, anche se quest'ultime non credono nella manifestazione originaria ma nella creazione del mondo. La scienza osserva, invece, le singole manifestazioni; isolando il campo di osservazione, cerca regolarità all'interno di determinati contesti e ne ricava leggi di natura: il problema filosofico e teologico delle origini rimane sullo sfondo ma non riceve risposte di natura scientifica. Fino all'avvento della meccanica quantistica ogni evento doveva avere la sua causa in un evento precedente. Questo assioma di causalità sembrava dar credito alle teorie creazioniste ma Heisemberg con la scoperta dell'indeterminazione quantistica ha modificato la nostra percezione della realtà. Gli eventi sembrano godere ora di un margine di libertà che li rende più o meno probabili o addirittura impossibili e questo sembra introdurre un certo grado di casualità che rimette la palla al centro tra i filosofi della manifestazione originaria casuale e i creazionisti.È possibile in questo modo arrivare alla verità?Dice Severino "Per motivi che restano per lo più celati alla coscienza che il nostro tempo ha di se stesso, il tramonto della concezione tradizionale della verità è inevitabile. È quindi inevitabile il tramonto del senso tradizionale di causalità" ma se il nesso di causalità non può più costituire una "verità necessaria" non è detto che si debba assumere come verità necessaria il concetto opposto della casualità del mondo e dunque della sua manifestazione originaria.L'indeterminazione di Heisemberg concede alle particelle elementari che compongono il nostro universo una limitata libertà di movimento non una libertà assoluta. E come se ognuna sapesse che deve muoversi e cercare possibili relazioni con una infinità di altre presenze ciascuna con un proprio spazio e un proprio tempo in cui muoversi. Questo non comporta la definitiva scomparsa del concetto di causa ma concede alle particelle una certa autonomia di comportamento direi quasi una autonomia responsabile da cui dipende l'esito delle strutture che emergono dalle loro relazioni. Non c'è alcun progetto; solo un principio che condiziona i loro rapporti. Le strutture che si formano sono come la tela di un ragno: un insieme di trame che hanno successo solo se seguono l'ordito."La manifestazione del mondo - insiste Severino - è invece il tutto di cui anche i fenomeni scientifici, quelli mentali inclusi, vengono a far parte. E la manifestazione del mondo include ogni tempo".Come può il tutto manifestarsi? e a chi? Manifestarsi significa entrare in relazione: con chi può entrare in relazione il tutto? Non con le sue parti che diversamente dal tutto hanno una dimensione spaziale e temporale. Forse con altri mondi ma in questo caso non sarebbe più il tutto e tornerebbe ad essere una parte. Se è una parte ha una esistenza finita, non può includere ogni tempo ma il suo tempo. Se invece è il tutto e include ogni tempo, allora, è senza tempo, è eterno ed immutabile. Eterno ed immutabile è solo Dio o un Principio che emani da Dio.Un principio può entrare in relazione con il mondo, manifestarsi e proporsi senza subire mutazioni e cambiamenti, può entrare in relazione senza la necessità di rapportarsi e pur non imponendosi può obbligare il mondo a rapportarsi ad esso. Proprio da questa relazione può avere origine il tempo e il divenire, il carattere mutevole e transeunte delle cose ma anche il progressivo maturare di coscienze e menti evolute.Forse, allora, non esiste una manifestazione originaria del mondo, né una mente originaria perché originario e senza tempo può essere solo Dio o il nulla. Ma solo da Dio può emanare un principio creativo; non necessariamente un inizio che è difficile immaginare possa emergere da un essere atemporale, piuttosto una inesauribile inestinguibile e continua riproposizione.Severino vede il "piano inclinato" lungo il quale scivolano le ideologie di questo tempo compreso il capitalismo, la democrazia e le religioni. Considera responsabile di questa inclinazione la tecnica in quanto "essenza vincente e nascosta della filosofia che porta all'aumento indefinito della potenza" Abbiamo già visto che a determinare l'agire dell'uomo è anche e soprattutto la sua avidità. Il suo desiderio di potenza si alimenta con l'accumulo di ricchezza più che con il pensiero filosofico. Capitalismo e democrazia si indeboliscono proprio perché i contenuti razionali del pensiero non riescono a contrastare la potenza e la forza del denaro e delle oligarchie che con esso si alimentano. È questa la dinamica che determina l'inclinazione del piano ed è sempre questa dinamica a favorire lo sviluppo della criminalità organizzata. La tecnica non c'entra nulla in questo contesto: rimane uno strumento neutrale che può essere usato per il meglio o per il peggio; nelle mani di oligarchie criminali diventa estremamente pericolosa non solo per il capitalismo e la democrazia ma per l'uomo e per l'ambiente in cui vive.Non è detto che il capitalismo debba durare in eterno e che la democrazia non possa trovare forme di rappresentanza e partecipazione migliori di quelle attuali ma il piano inclinato si può raddrizzare solo se si crede, non tanto nella forza della ragione che trova sempre qualche motivo di discriminazione tra gli uomini, ma in un principio di solidarietà e fratellanza, in carenza del quale la tecnica può solo fornire ulteriori alibi al dominio dell'uomo sull'uomo.In riferimento alla crisi economica Severino afferma:"Le discipline scientifiche che la prendono in considerazione non possono coglierne il significato appropriato: sono forme di specializzazione scientifica, dove viene metodicamente isolata una certa parte del terreno in cui essa si trova e assume la configurazione che le compete" Niente di più vero, occorre una comprensione unitaria del tutto, come può fare la filosofia, ma anche una filosofia che non consideri un principio etico è destinata a fallire.