sabato 17 settembre 2011

UNA RADICALE RIFORMA DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA

UNA RADICALE RIFORMA DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA
Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera del 10 sett.) individua la causa strutturale dei mali che affliggono il nostro paese in un “immane blocco sociale conservatore” formato da professionisti: avvocati, giudici, notai, medici, farmacisti, ogni altro ordine, sindacalisti, evasori, pensionati privilegiati, centri sociali in grado di bloccare ogni opera pubblica indispensabile allo sviluppo, infiniti altri segmenti tutti in grado di impedire qualsiasi riforma. A questo elenco bisogna aggiungere finanzieri e faccendieri senza scrupoli, la cui ricchezza non ha alcun rapporto con la produzione e il lavoro; la criminalità organizzata, in grado di controllare determinati territori e la loro rappresentanza; le multinazionali, specie quelle dell'energia e della comunicazione. Tutti questi condividono lo stesso obiettivo: impedire qualsiasi cambiamento, conservare i propri privilegi e garantire la propria sopravvivenza. Galli della Loggia affida quindi alla politica il compito di “parlare con verità”.
Ora, parlare con verità è un impegno troppo gravoso per chiunque, immaginarsi per la politica. E’ possibile però a tutti parlare con onestà e responsabilità. Parlare tuttavia non basta, occorre anche agire allo stesso modo, ma possiamo veramente sperare in un intervento risolutivo della politica? Purtroppo le strutture politiche altro non sono che l’espressione di quel blocco sociale su cui dovrebbero intervenire e ne sono perciò condizionate. Se le cose stanno così il problema non è il blocco sociale ma il sistema di rappresentanza politica che lo consente e che prende il nome di rappresentanza democratica. Ormai le democrazie occidentali sono espressione di oligarchie originate da poteri forti che con il popolo hanno molto poco in comune. Possiamo dirlo senza timore di essere smentiti: la gente normale, quella che lavora per far crescere dei figli, dare un tetto e mantenere una famiglia, ha scarse possibilità di essere rappresentata. Allora il problema vero è una riforma che rivoluzioni il sistema della rappresentanza politica e dia voce a queste persone. Sono persone che per ora subiscono, manifestando solo il loro disagio per il lavoro che non c’è o per stipendi appena sufficienti ad affrontare le spese di trasporto per recarsi al lavoro e poco più. Impossibile, per i giovani, ogni sogno di indipendenza dalla famiglia paterna. Le imprese possono ridurre i costi ed aumentare i loro guadagni con il trasferimento della produzione nei paesi emergenti, ma cosi facendo contribuiscono a comprimere ulteriormente gli stipendi e favoriscono la crescita della disoccupazione. Alla fine la gente si chiederà cosa deve farsene di una democrazia come questa e si renderà disponibile per pericolose avventure. La rivoluzione araba nasce in una popolazione di sudditi abituati a subire da secoli, una rivoluzione in occidente coinvolgerebbe cittadini abituati alla società del benessere. Quello che potrebbe accadere lo lascio immaginare a chi ha la fantasia per farlo. Come ho già sostenuto in un precedente articolo non c’è nessun sistema elettorale che possa impedire ai poteri forti, corrispondenti al blocco sociale di cui parla Galli della Loggia, di determinare la scelta e, in definitiva, di controllare la rappresentanza politica. Il problema esiste dai tempi arcaici laddove organizzazioni, non templari, di cittadini amministravano gli affari delle, allora, nuove e differenziate concentrazioni urbane. Il sistema generalmente adottato specie nell’antica Grecia, perfezionato ai tempi di Clistene, aveva come fondamento il principio di eguaglianza. Si realizzava con la rotazione annuale degli incarichi, la partecipazione di tutti i cittadini nella assemblea legislativa (ecclesia), l’estrazione a sorte dei componenti le assemblee rappresentative (demi) e dei magistrati incaricati del governo cittadino. Solo gli strateghi (creati dalla riforma di Clistene) venivano eletti: avevano il comando dell’esercito in tempo di guerra, prima affidato all’arconte polemarco. Non si occupavano di questioni civili o di problemi sociali: i greci sapevano che, quando ne avevano l’occasione, gli uomini, o almeno alcuni tra loro, facevano prevalere il loro tornaconto sull’interesse generale. Se solo avevano il sospetto che potessero farlo l’assemblea aveva il potere di esiliarli. In Italia, per esempio, ci sono rappresentanti del popolo che perdono la maggior parte del loro tempo a contare i propri soldi. Il caso Italia è unico tra le democrazie occidentali perché quelli che si definiscono rappresentanti popolari in realtà usurpano il nome che si attribuiscono. Di fatto sono dei nominati e rappresentano solamente chi ha il potere di nominarli.
Certo il sistema greco non è applicabile in Italia. Atene contava su decine di migliaia di cittadini e l’Italia conta su decine di milioni. Tuttavia anche Atene, al tempo di Clistene, pur conservando l’ecclesia, sentì il bisogno di avere un organo rappresentativo composto da 5oo elementi (50 per ciascuna delle 10 tribù), ma non rinunciò al sistema di estrazione a sorte, né a quello della rotazione, per lo più annuale, degli incarichi. Infatti l’estrazione a sorte consente una rappresentazione della popolazione più realistica ed efficace di una rappresentanza elettiva anche se, in questo modo si realizza solo su un campione della popolazione. Se cosi fosse, oggi, le assemblee legislative sarebbero caratterizzate dalla presenza di persone normali. Avvocati, giudici, altri esperti o professionisti che oggi, se eletti, continuano a svolgere la loro professione e fanno, prevalentemente solo ciò che a loro conviene, potrebbero, se necessario, essere relegati al rango di consulenti. Invece di una partecipazione universale nelle assemblee legislative nazionali e regionali avremmo una rappresentanza per campione ma pur sempre del tutto coerente con la realtà. I componenti l’assemblea legislativa potrebbero essere estratti a sorte tra i residenti nella circoscrizione elettorale di appartenenza. Si potrà stabilire dei limiti minimi e massimi di età, escludere chi ha problemi con la giustizia, chi non ha adempiuto all’obbligo scolastico, chi non è nelle condizioni di salute fisica o mentale per svolgere la funzione ma per il resto chiunque è in grado di dare un parere su problemi di ordine amministrativo o su questioni di carattere civile o sociale con più equità e ponderazione di quanto non si faccia oggi (si consideri che non c'è più, come un tempo, una classe dirigente colta e un popolo analfabeta). L’assemblea potrebbe essere rinnovata per un terzo ogni due anni escludendo coloro che hanno già ricoperto l’incarico. Il capo del governo potrebbe essere scelto nella società civile per un incarico a tempo non rinnovabile. A lui potrebbe essere affidato il compito di proporre la compagine governativa. L’assemblea avrebbe il potere di approvare la scelta dei ministri o di rimuoverli (tutti o in parte), come pure quella di eleggere e sfiduciare il capo del governo. Servirà una magistratura indipendente e un organo di garanzia costituzionale ma in entrambi i casi i giudizi devono essere emessi sentita una giuria popolare individuata con un sistema di sorteggio simile a quello già in vigore nei nostri tribunali.
Le Democrazie devono cambiare per sopravvivere. Cosi come sono oggi sono destinate ad essere dominate da potenti oligarchie finanziarie; da società multinazionali non controllabili perché presenti con diramazioni in molti altri paesi; da multinazionali del crimine organizzato, in grado di inquinare tutti i settori della politica, della giustizia, dell’economia (dal credito, all’industria, al commercio); anche da blocchi sociali, interni al paese stesso, come quelli descritti da Galli della Loggia. In ogni caso finiranno per rappresentare interessi molto distanti dai problemi della gente comune e non potranno garantire né un ordinato sviluppo della sociètà civile, né la pace sociale. .
Ivo Fava, li 17. 09. 2011

giovedì 11 agosto 2011

VUOTO - SPAZIO - TEMPO

VUOTO – SPAZIO – TEMPO

Secondo la nostra comune esperienza lo spazio può essere vuoto e il vuoto può essere occupato da cose ma non in modo illimitato. Infatti lo spazio può essere pieno e dove c’è una cosa non si può metterne un’altra. Non abbiamo alcuna esperienza di un vuoto senza spazio perché il primo esiste solo in relazione al secondo. Un vuoto senza spazio può solo essere il nulla e dove c’è il nulla, nulla può succedere. Nello spazio dove c’è la presenza di cose e dove le cose sono in relazione tra loro, può invece succedere di tutto e se le cose succedono è possibile rilevare la presenza del tempo. Tuttavia l’astrofisica ci dice che esiste uno spazio cosmico indeterminato che può dilatarsi e restringersi ed un vuoto cosmico che segue lo stesso destino. In corrispondenza di queste regioni dello spazio anche il tempo può dilatarsi o restringersi. Il vuoto cosmico però non è lo stesso di cui abbiamo esperienza nel nostro mondo, ma un vuoto pieno di potenziale energetico con improvvise fluttuazioni in grado di creare e distruggere, continuamente, in un intervallo temporale di circa 10ˉ23 sec., copie effimere di particelle virtuali che possono talvolta materializzarsi. Qualcuno ipotizza che particelle di questa natura potrebbero, occasionalmente, essere tanto energetiche da determinare nuovi universi. Se lo spazio e il tempo possono dilatarsi e restringersi deve esserci una forza esistente a priori in grado di originarli e di condizionare la loro esistenza. Questa forza non può che trovarsi in un vuoto senza spazio e senza tempo: un vuoto che non è propriamente un vuoto ma un inesauribile potenziale di energia dove tutto ciò che è esistito in passato, che esiste oggi e che esisterà in futuro potrebbe essere presente in modo virtuale.
Ivo Fava – 11/08/2011

venerdì 8 luglio 2011

Debito pubblico e dilatazione dello stato

DEBITO PUBBLICO E DILATAZIONE DELLO STATO
Secondo Piero Ostellino (Corriere della Sera del 7 luglio) spesa pubblica e pressione fiscale elevata dipendono dall’art. 3 della costituzione che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Questo obbiettivo si può realizzare, secondo Ostellino, o con la forza, come avveniva nelle repubbliche sovietiche a scapito delle libertà individuali, o con un eccesso di spesa pubblica e una mortificante pressione fiscale come avviene in molte democrazie liberali. L’eguaglianza, peraltro, sarebbe comunque irraggiungibile perché gli uomini continuano ad essere diversi per capacità merito, fortuna. Solo questa frase presenta un barlume di verità, tutto il resto è indegno di una persona colta e intelligente come ritengo sia P. Ostellino. Gli uomini sono senz’altro diversi per capacità, merito, fortuna ma tutti hanno diritto di giocarsi le loro qualità in condizioni di pari dignità. Entrando nel merito della questione sembra piuttosto imbarazzante sostenere che il gigantesco debito italiano sia dovuto al tentativo di rendere eguali gli italiani: del resto neppure la Costituzione lo pretende (e una diversa lettura non le rende giustizia). È invece il prezzo di atteggiamenti tolleranti della politica verso comportamenti anche illeciti che favoriscono classi privilegiate della popolazione, ma anche di sprechi, ruberie, corruzioni, regalie, privilegi, distorsioni di fondi pubblici per interessi privati, rendite di posizione, creazione di strutture inutili per fini clientelari e di potere ed altre cose di questa natura. Sfido chiunque a dimostrare che le disuguaglianze economiche, come pure quelle politiche e sociali, siano diminuite negli ultimi quarant’anni in cui il debito pubblico si è formato.
Ivo Fava
Giovedì 7 luglio 1911

domenica 26 giugno 2011

QUALI RIFORME ?

QUALI RIFORME ?

Il Presidente della Repubblica, opportunamente, invita il governo a perseguire il pareggio di bilancio e a ridurre il peso del debito pubblico sulle finanze del paese. Si può giurare che tutte le forze politiche rappresentate in parlamento e i loro portavoce si dichiareranno d’accordo ma si guarderanno bene dall’indicare in quale direzione guardare per recuperare le risorse necessarie.
Le sinistre diranno che occorre colpire di più le rendite finanziarie e meno i redditi di lavoro e le destre proporranno di aumentare le imposte indirette per diminuire quelle dirette,cosi i poveri pagheranno in vitto e spese di prima necessità quello che gli altri recupereranno ulteriormente in benefit e rendite parassitarie. Qualcuno suggerirà, ma sulla loro sincerità non è opportuno scommettere, che occorre eliminare le provincie o promuovere il federalismo fiscale con un senato delle regioni in sostituzione di quello attuale, altri ancora avanzeranno la proposta di ridurre il numero dei parlamentari. Ma tutte queste proposte, sganciate da un contesto generale, servono solo ad alimentare una sterile polemica politica, destinata a produrre più guai che a influire sulla soluzione del problema. Altri chiedono una riforma del diritto tributario il cui scopo dovrebbe essere, non quello di ridurre le spese, ma di destinare nuove risorse alla spesa dei vari ministeri, vagamente definita “per lo sviluppo e la crescita”. Nella condizione in cui siamo questo significherebbe creare ulteriore debito pubblico, sfondare i limiti di bilancio con deficit vicini a quelli greci o irlandesi e destinare tutte le risorse finanziarie reperibili con la fiscalità al pagamento degli interessi sul debito che già oggi raggiungono la spaventosa cifra di circa 80 miliardi di euro. In realtà una riforma del diritto tributario si impone ma indicando prima dove reperire le risorse e solo in un secondo momento come distribuirle. Si potrebbe tassare maggiormente chi accumula ricchezza e spende in beni di lusso premiando invece chi investe creando ricchezza e lavoro, sfoltire la giungla delle esenzioni e agevolazioni favorendo soltanto le famiglie e il lavoro, modificare il prelievo fiscale cambiando il rapporto tra rendita finanziaria e reddito di lavoro a vantaggio di quest’ultimo. L’Europa ci impone una manovra di 40/45 miliardi in quattro anni e questo dovrebbe significare sacrifici per tutti ma a pagare di più saranno, come al solito, i più deboli. Per avere un minimo di credibilità e far passare misure impopolari la classe politica dovrebbe dare qualche segno di responsabilità e partecipazione cominciando a eliminare i propri privilegi, i propri vitalizi, ridurre i propri stipendi che non temono confronti in Europa e nel mondo, contenere i rimborsi elettorali ai partiti non oltre le spese effettivamente sostenute, chiedere l’eliminazione delle pensioni multiple milionarie pagate da una previdenza pubblica con i soldi accumulati in un modo o in un altro grazie al sudore di tanti lavoratori che, pur avendo lavorato una vita, non riescono ad avere una pensione decente. Queste misure potrebbero da sole garantire le risorse necessarie nell’immediato per contenere il deficit e poterebbero favorire in qualche misura i consumi e la crescita. Ma l’Italia ha bisogno d’altro.
Ha bisogno di riforme strutturali in grado di garantire, se non subito almeno in un prossimo futuro, una sostanziale riduzione della spesa e ai nostri figli e nipoti la speranza di un dignitoso avvenire, ha bisogno di dare rilevanza costituzionale ad argomenti che i padri costituenti hanno eluso, ma che sono fondamentali per il regolare funzionamento degli organismi di rappresentanza democratica. Si tratta di argomenti che un parlamento come il nostro non è purtroppo in grado di affrontare. Infatti è formato da persone nominate, senza alcuna legittimazione popolare, dai rispettivi capi partito; molto spesso rappresentano specifici interessi, talvolta sono indagate per reati di varia natura, a volte sono coinvolte in funzioni che non sarebbero di loro competenza, altre ancora con incarichi multipli in conflitto di poteri o interessi. Sarebbe necessaria una assemblea costituente eletta direttamente su collegi uninominali e candidature libere che escludano i parlamentari in carica. Per questo motivo è semplicemente indispensabile e prioritario modificare la legge elettorale ritornando a un rapporto più diretto tra eletti ed elettori.
In merito alle riforme strutturali ricordiamo la necessità di una riorganizzazione e razionalizzazione dei servizi pubblici con l’eliminazione degli enti inutili, la semplificazione della struttura degli enti territoriali con l’eliminazione delle provincie e delle prefetture, il completamento del federalismo, compreso quello fiscale, accompagnato però da rigorose leggi di bilancio tali da coinvolgere la responsabilità personale degli amministratori.
La nostra costituzione è nata in un momento in cui alcune forze politiche erano lontane dal manifestare entusiasmo verso le democrazie liberali cresciute in occidente: guardavano altrove, a sistemi politici che certo non si ispiravano a Lock, Montesquieu o Tocqueville. C’erano però componenti che avrebbero voluto farlo. Ne risultò un ordinamento statale che prevede una divisione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giurisdizionale ma tale divisione resta su un piano formale: “divide” ma non “separa” consentendo all’esecutivo di interferire con il legislativo, il legislativo con l’esecutivo e ai giudici di muoversi, con disinvoltura, tra le istituzioni fino al punto di consentire a ciascun potere devastanti incursioni in campi non specificatamente suoi. Si riporta solo l’ultimo episodio: il presidente del consiglio, per ricostruire la sua maggioranza traballante, ha offerto un consistente numero di nuovi posti di governo, appositamente creati, a deputati dell’opposizione che hanno risposto all’appello cambiando opinioni e bandiera. Se questi deputati fossero stati costretti a dimettersi per assumere l’incarico di governo lo scopo non sarebbe stato raggiunto e, probabilmente, nessun deputato avrebbe risposto al richiamo.
La magistratura deve difendere la sua autonomia ma non deve insidiare quella dell’esecutivo o del legislativo assumendo connotati che non le appartengono come la connotazione politica di alcune sue componenti: una connotazione non casuale ma indotta anche dal sistema elettorale adottato per l’elezione del C. S. M. che obbliga i magistrati a schierarsi in liste contrapposte con finalità politiche.
È inoltre necessario prendere in considerazione i conflitti di interesse pubblico/privato e di potere tra chi ricopre più incarichi pubblici contemporaneamente. A tale riguardo chi svolge un ruolo pubblico rilevante di legislatore o di governo, sia locale che nazionale, dovrebbe cessare la propria attività professionale quando questa sia nella condizione di trarre vantaggio da quel ruolo. Per gli stessi motivi chi svolge una attività di governo, sia locale che nazionale, o di amministratore in enti pubblici non dovrebbe contemporaneamente assumere il ruolo di legislatore. Chi è indagato per reati comuni dovrebbe dimettersi dall’incarico pubblico ricoperto e chi subisce una condanna per gli stessi motivi dovrebbe perdere il diritto all’elettorato passivo.
C’è infine chi accoglie con entusiasmo la proposta di ridurre a 300 il numero dei parlamentari. Questo entusiasmo non è condivisibile. Sarebbe la fine di ogni possibile rapporto diretto tra eletto ed elettore; la scelta definitiva per una democrazia elitaria. L’elettorato passivo sarebbe acquisito
non in virtù di un diritto appartenente ad ogni cittadino ed esercitato con un mandato popolare ma per successione ereditaria, in forza di disponibilità economiche e forse anche di complicità criminali. Sarebbe invece opportuno eleggere i nostri rappresentanti in collegi uninominali comprendenti non più di 40/120 mila elettori, in rapporto alle caratteristiche demografiche del territorio, in modo che ogni cittadino possa avere conoscenza diretta e possibilità di controllo del suo rappresentante. Con il collegio uninominale si eviterebbero i problemi conseguenti al voto di preferenza e si eliminerebbe quella evidente schifezza della lista bloccata.
Si può parlare d’altro: di repubblica presidenziale all’americana o alla francese, di cancellierato alla tedesca o di altro ancora. Anche se credo nella funzione sociale della ricchezza, comunque conseguita, si potrà parlare di economia più o meno libera o più o meno guidata ma quelle qui suggerite sono riforme non eludibili se vogliamo essere un paese presentabile.
Ivo Fava li, 25/06/2011

mercoledì 13 aprile 2011

RIVOLUZIONE ARABA

RIVOLUZIONE ARABA

In questi giorni assistiamo ad avvenimenti che suscitano, nei governanti europei, apprensione ma anche scomposte reazioni prive di prospettive sia storiche che culturali. Si riproducono situazioni già sperimentate in passato, condannate dalla storia e chiaramente repressive delle culture esistenti.
L’Europa opulenta, forse ancora per poco, si chiude a riccio rispetto a movimenti migratori che coinvolgono interi continenti, in particolare quello africano: un continente che ha conosciuto il giogo coloniale dell’ Europa e che tutt’ora, in parte, lo subisce, sia pure in forme più moderne e sofisticate ma non meno minacciose e distruttive. Regimi sanguinari, autoritari e violenti, hanno potuto reggersi grazie all’atteggiamento interessato e protettivo di governi occidentali che hanno continuato a sfruttare enormi ricchezze in cambio di armi, tecnologie militari e denaro. Le reazioni popolari di questi giorni, nei paesi arabi, determinano, nei nostri governi, improvvisi protagonismi, con ripensamenti e sconvolgenti cambiamenti di rotta a seconda della piega presa dagli avvenimenti. L’impressione che se ne ricava e quella di un’Europa priva di qualsiasi valore e guidata da una élite politica senza talento, arrogante e stupida, il cui unico intento sembra essere quello di trarre vantaggio dalle disgrazie altrui, anche a danno, anzi direi soprattutto, degli alleati in difficoltà.
Possibile non vedere che nel mondo arabo, a noi vicino, ci sono fermenti culturali di una tale natura che possono avere un impatto rivoluzionario anche nel nostro continente e che potrebbero obbligarci a riconsiderare le strutture portanti su cui fondiamo i nostri rapporti politici e le nostre relazioni sociali. Questi popoli scoprono il valore della libertà politica ed economica ma hanno, più di noi, il senso della comunità e della solidarietà. Reagiscono contro i loro satrapi ma anche contro lo strapotere delle multinazionali nostrane che hanno finanziato guerre e stermini, provocato distruzioni e che, con il loro egoismo, la loro arroganza, la loro avidità, minacciano la sicurezza di tutti e quella del mondo intero. Possono aver bisogno di un aiuto ma noi non possiamo illuderci, aiutandoli, di poter continuare a condizionare la cultura, l'economia e la storia di queste popolazioni che con noi hanno condiviso, aiutandoci a conservarla, la civiltà greca e romana. Sostenere le rivendicazioni popolari con la diplomazia e talvolta anche con le armi di fronte allo strapotere militare di qualche dittatore può essere necessario purché non sia visto come un tentativo di precostituire posizioni di privilegio in funzione di vantaggi futuri. Se cosi fosse verrebbe confermata la mentalità coloniale dei governanti europei. Serve invece una reale apertura, una convincente dimostrazione di solidarietà umana verso chi fugge di fronte alla guerra, alla violenza, alla fame, alle distruzioni; serve aiutare chi rimane a ricostruire il loro futuro, ad avere fiducia in una nuova stagione di rinascita e di speranza; servono forme di collaborazione e di integrazione politica ed economica. Questa è la strada da seguire ma l’Europa deve prima sapere cosa fare di sè stessa. Sommessamente ricordo che l’integrazione europea è cominciata con dei padri fondatori animati da valori cristiani e domando: “di quali valori sono portatori i governanti di oggi”?

Ivo Fava - 13/04/2011

giovedì 7 aprile 2011

IO CREDO

IO CREDO (dichiarazione di fede in 7 punti




1) Credo in un Dio senza tempo, eterno ed immutabile, e in un universo, originato dall’indistruttibile energia della Manifestazione Divina

2) Credo che la Manifestazione Divina avvenga proponendosi come Valore, nella forma di principio etico.

3) Credo in un universo senza inizio e senza fine, che risponde alla Manifestazione Divina con sequenze temporali e locali mutevoli, emergenti da un indistinto substrato atemporale e non locale.

4) Credo in risposte libere di muoversi tra accoglienza e rifiuto, algoritmi formati da si e no che a seconda delle loro sequenze costruiscono strutture in grado di correggersi e perfezionarsi.

5) Credo nel Principio etico come motore del processo evolutivo, tensione verso il futuro e giustificazione di ogni esistenza temporale e locale.

6) Credo che ogni sequenza temporale, si evolva e si realizzi nella misura in cui tende a identificarsi con il Valore insito nella Manifestazione Divina.

7) Credo che tra gli umani, strutture biologiche complesse, con elevati livelli di coscienza, il valore della Manifestazione Divina assuma le caratteristiche di un sentimento come l’amore per il prossimo e per la natura e che nel principio etico si debbano cercare i criteri di base per le relazioni sociali e per i rapporti con l’ambiente.

IVO FAVA, li 02/03/2011

venerdì 25 marzo 2011

La democrazia è una virtù

LA DEMOCRAZIA È UNA VIRTÙ
L’articolo “La democrazia è una opinione” che Angelo Panebianco ha scritto per il settimanale “La 7”, in edicola giovedì 24 marzo, sembra una risposta al mio “Democrazia oggi” con cui mi sono inserito nel suo blog.
Sostiene che le oligarchie sono necessarie, e chi crede di poterne fare a meno è vittima di quel “perfezionismo democratico” di cui parla Giovanni Sartori. Panebianco e Sartori sono due grandi del giornalismo italiano e io non li voglio contraddire. Nel mio articolo, ma anche in altre occasioni, ho usato parole forti contro le oligarchie, tuttavia, so bene che una società ha bisogno di élites: ci saranno sempre persone che emergono per le loro qualità, brave nel perseguire i loro obiettivi e capaci di imporsi come guide privilegiate nel promuovere anche gli interessi collettivi. Una società che si rispetti deve però avere un codice di leggi e un codice morale in grado di impedire che oligarchie prepotenti, presuntuose ed arroganti, talvolta persino ignoranti, arricchitesi spesso attraverso complicità e malaffare, possano piegare gli altri, opinione pubblica compresa, ai propri interessi.
Occorre un codice di leggi che tuteli lo stato dal conflitto di interessi tra le istituzioni, con una effettiva divisione di poteri, e dal conflitto di interessi tra pubblico e privato. Occorre un codice morale che dia sostanza alle virtù insite nel concetto di cittadinanza: tutti sanno che il cittadino è titolare di diritti ma pochi si ricordano dei suoi doveri eppure è soprattutto su questi che si costruisce il contratto sociale. Sono diritti e doveri che competono al cittadino in quanto individuo e non come appartenente ad un gruppo tribale che tanto più è potente, tanto maggiori sono i privilegi che può garantire. Il paese non cresce, se non premia i virtuosi ma i furbi, i malviventi e i lacchè. Questo, purtroppo, è il caso del nostro paese o, per meglio dire, della nostra democrazia; credo sia giunto il momento di renderlo esplicito.
Panebianco sostiene infine che sono le opinioni pubbliche, condizionando le scelte delle oligarchie, a rendere possibile le democrazie rappresentative.
Domanda: può l’opinione pubblica, sostituire un codice di leggi adeguato e le virtù civili? No! Non può farlo quando è disinformata, manipolata e corrotta dall’uso perverso dei mezzi di comunicazione di massa, TV e giornali, nelle mani di potenti oligarchie che li controllano anche grazie alla complicità e ai finanziamenti dello stato. Anche gli intellettuali che dovrebbero svolgere un ruolo importante per orientare l’opinione della gente cedono spesso alle lusinghe del potere e del denaro. Lo sa anche Panebianco se cita i finanziamenti concessi dall’Arabia Saudita agli istituti culturali dell’occidente al fine di orientare a loro favore l’opinione pubblica mondiale.
Credo che ogni società abbia energie e valori, a volte assai diffusi, che non riescono ad emergere per gli ostacoli frapposti dalle oligarchie dominanti. Con “Democrazia Oggi” ho indicato un modo per ovviare a questo inconveniente e pazienza se faccio a meno dei sistemi elettorali: Le democrazie possono essere rappresentative anche quando i rappresentanti non sono delegati dagli elettori; pure l’estrazione a sorte può raggiungere lo scopo. Ricordo che, nel nostro paese, le assemblee legislative sono nominate e non elette per cui parlare di regime democratico è solo un eufemismo.